Interpretare!

La parola più diffusa è recitare: in questo modo viene indicata l’arte dell’attore. Ma in realtà la sua etimologia deriva dalla parola citare, una parola che nel suo significato latino originale corrispondeva a “fare l’appello di persone”. Dunque è tutt’altra cosa rispetto a quello che si fa davanti ad un pubblico in teatro o davanti ad un microfono o una telecamera. Non è un caso che all’estero il lavoro dell’attore è tradotto con play in inglese o jouer in francese, a dimostrazione che l’arte teatrale è anzitutto gioco.

Di conseguenza il termine più corretto è interpretare di cui nel dizionario Treccani si trova una lunga ed esauriente spiegazione ma che per quanto riguarda questa pagina si può limitare a questa definizione: Intendere e spiegare nel suo vero significato (o in quello che si ritiene sia il significato giusto o più probabile) il pensiero d’uno scritto o d’un discorso il cui senso sia oscuro o dia luogo a dubbî

In questa definizione vi è tutta l’essenza di quello che si fa in teatro: si acquisisce (o si scrive) un testo, lo si analizza, lo si elabora, lo si scompone in diverse fasi che poi diventano scene ed infine atti, si procede con la stesura del soggetto, della sceneggiatura, dei profili, delle back-history-list, e si passa allo studio dei personaggi cui gli attori danno vita attraverso, appunto, l’interpretazione.

Sul tema si veda l’articolo “Recitare e interpretare” nel blog del sito

In fondo tutti (chi più chi meno) interpretiamo poiché ci atteniamo sempre a un copione, a uno schema comportamentale, ad un insieme di atteggiamenti che riteniamo i più adeguati in determinati contesti, magari sbagliando ma pensando sempre che quel modo di porsi sia il più adeguato.

Ho messo in scena questo blog per parlare della mia passione verso il teatro, verso quella forma autentica di scambio di emozioni fra autore, attori e spettatori che è da oltre duemilacinquecento anni uno dei canali più intensi e appassionanti della comunicazione umana.

L’arte teatrale è straordinaria, crea un rapporto emotivo diretto fra chi recita e chi usufruisce, lo scambio di emozioni è a pelle, è diretto sia quando funziona che quando non va.

Interpretare, stare in scena è anche un percorso terapeutico contro depressione, timidezza, incapacità di relazionarsi, è un ottimo strumento di miglioramento della persona.

Un buon regista è anche un fine psicologo, è qualcuno che della psiche umana ha un’idea molto chiara e altrettanto complessa. Per questo mi dedico alla regia, poiché nutro una grande attenzione verso questa scienza straordinaria.

Un autore è bene che le proprie opere se le diriga da sé se ne ha la capacità e le competenze: troppo spesso infatti registi pur bravi, esperti e altamente competenti tendono a tagliare, modificare e stravolgere in maniera anche pesante il contenuto dell’opera cambiando il messaggio che l’autore intendeva trasmettere. Se vogliono creare una storia loro, come scrisse Arnoldo Foà nella sua autobiografia, se la scrivano da sé ma non cambino i significati che gli autori hanno assegnato ai loro lavori.

Forse è per questo che Giusi Merli, indimenticabile “santa” ne “La grande bellezza” affermò che le commedie meno problematiche sono quelle in cui l’autore è già defunto.

Dato però che intendo campare ancora a lungo, sto studiando regia teatrale.
Non si sa mai.