Direttore d’orchestra e regista teatrale: un parallelo sorprendente

Il XIX secolo ha visto l’emergere di due figure fondamentali nel mondo dello spettacolo: il direttore d’orchestra e il regista teatrale. Entrambe hanno radici profonde nella storia delle arti performative e hanno subito un notevole sviluppo nel XX secolo, diventando pilastri insostituibili ad ogni livello, tanto da quello professionistico che semiprofessionistico.

Prima dell’era del direttore d’orchestra, le orchestre erano spesso guidate da un primo violino o da un compositore stesso. Tuttavia, nel corso del diciottesimo secolo, con l’aumento delle dimensioni e della complessità delle composizioni orchestrali, è emersa la necessità di una figura centrale in grado di coordinare e interpretare la musica in modo unificato. È così che è nato il ruolo del direttore d’orchestra, il cui compito è quello di tradurre le intenzioni del compositore e di guidare gli strumentisti verso una performance coesa e coinvolgente.

Analogamente, il regista teatrale è emerso come figura chiave nel XXIV secolo, quando il teatro occidentale stava sperimentando una trasformazione significativa. Prima di allora, le produzioni teatrali erano spesso gestite da attori stessi (primo attore) o da direttori di scena di compagnie teatrali. Tuttavia, con l’avvento del romanticismo e del realismo nel teatro, è emersa la necessità di una mente creativa in grado di dare forma e coerenza alle visioni degli autori, portando le opere teatrali a nuovi livelli di espressione artistica. Così, il regista teatrale è diventato colui che coordina gli sforzi degli attori, del personale tecnico e dei designer per creare un’esperienza teatrale completa e coinvolgente per il pubblico.

Nel corso del XX secolo, sia il direttore d’orchestra che il regista teatrale hanno subito un ulteriore sviluppo, diventando figure sempre più centrali nelle rispettive arti. Con l’avvento della registrazione sonora e della cinematografia, il direttore d’orchestra ha assunto un ruolo ancora più importante nella creazione di colonne sonore e nell’interpretazione delle opere musicali per il grande schermo. Allo stesso modo, il regista teatrale ha trovato nuove sfide e opportunità nel mondo del cinema e della televisione, portando le sue competenze narrative e visive a nuovi livelli di espressione artistica, sebbene le due branche restino sostanzialmente separate, teatro e cinema proseguono su percorsi evolutivi paralleli che non sempre s’incontrano.

Oggi, il direttore d’orchestra e il regista teatrale sono considerati figure insostituibili ad ogni livello delle rispettive industrie artistiche. La loro capacità di unire e interpretare opere complesse, la loro visione creativa e il loro talento nel guidare e ispirare gli artisti li rendono fondamentali per la produzione di spettacoli musicali e teatrali di successo. In un mondo sempre più dominato dalla tecnologia e dalla produzione di massa, il loro ruolo rimane fondamentale nel mantenere viva l’autenticità e l’emozione delle arti performative.

L’arte cresce con l’umanità perché ne è espressione del pensiero, per questo possiamo dire che l’arte è vita!

Sono un ladro

“Rubare in teatro è geniale, copiare è da coglione”.

Questa frase la disse Dario Fo a Paolo Rossi, come afferma quest’ultimo nel bel documentario sulla vita di Giorgio Gaber disponibile su RaiPlay dal titolo “Giorgio Gaber, l’utopia possibile”. Sempre Paolo Rossi continua dicendo che Fo questa frase l’aveva “rubata” a Pablo Picasso che a sua volta chissà a chi l’aveva rubata.

Rubare in teatro è un concetto ammesso, anzi spesso è sollecitato e apprezzato. Si “ruba” un’idea per produrne una nuova, si “ruba” una soluzione quando diventa uno strumento che migliora un proprio lavoro, si “ruba” quando si aggiunge valore, quando cioè da quel frammento che si è “trafugato” si costruisce qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c’era, cui non aveva pensato nessuno.

Uno dei miei maestri di regia mi disse: vieni ad assistere alle prove dei miei lavori e ruba, ruba più che puoi! E io rubai, rubai idee che diventarono spunti, rubai frammenti che divennero chiavi per nuove e diverse emozioni nei miei lavori. Lo feci anche con un film: “rubai” una frase che decontestualizzai trasformandola nell’incipit di una storia completamente diversa da quella pellicola; quella storia, senza quella frase, non avrebbe retto se non con giri di parole diversi e più complessi e infine noiosi.

“Copiare” è un’alta cosa. Copiare è “prendere un’idea altrui” e appropriarsene senza darle valore aggiunto, facendo credere che sia una cosa frutto del proprio ingegno, del proprio talento e per questo è un atto meschino e in fondo inutile. Inutile per chi lo pratica perché non cresce professionalmente, inutile per chi assiste perché subisce un inganno che prima o poi viene svelato, inutile per la cultura perché non vi è alcun progresso o insegnamento.

Il senso della differenza dei due concetti, sottolineata dalla frase che Fo “rubò” a Picasso, è qui: un atto creativo ha radici profonde e remote che sono il frutto di studi, percorsi, osservazioni e acquisizioni che producono nuove idee, nuovi scenari, nuove opere, nuova arte.

Copiare è spacciare senza nulla dare e senza nulla lasciare.
Copiare è un atto sterile.

Il potere dell’astrazione

Lucrezia interpretata da Patrizia Pozzi - Locandina della serata al conservatorio di Torino il 1/4/2023

Quando un attore è bravo? Quando un attore da artigiano diventa artista? Quando possiamo dire di aver apprezzato un’interpretazione davvero ben fatta? Ci sono molte risposte a queste domande, tutte lecite e legittime, poiché tanti sono gli elementi che concorrono a determinare la bravura di un interprete, ma io ne prediligo una: quando ci fa vedere e sentire ciò che non si vede e non si sente, quando cioè induce lo spettatore ad astrarre.

Ieri sera ho assistito ad una magnifica interpretazione: “Lucrezia” per la regia di Ivana Ferri e l’interpretazione di Patrizia Pozzi ed è stata emozione pura. Anche il giorno dopo, a mente fredda, quelle emozioni hanno lasciato il segno, sono sedimentate e continuano a farlo.

Si tratta di un monologo autobiografico di Lucrezia Borgia basato sulle ricerche storiche della professoressa Diane Yvonne Ghirardo dell’University of Southern California di Los Angeles e interpretato da Patrizia Pozzi. Una narrazione ricca di emozioni: gioia, tenerezza, dolcezza, rabbia, violenza, morte e dolore. In poco più di un’ora si viene immersi in un tempo, la fine del XV° secolo fatto di intrighi, cospirazioni, guerre, delitti e misfatti vari attraverso cui emerge la figura di Lucrezia non più con le tinte fosche della malvagità delle nefandezze commesse dai suoi familiari (come buona parte della letteratura e della storiografia ha fatto) ma con l’immagine pulita e sofferta di una donna di quel tempo che doveva affrontare e gestire un mondo patriarcale che su di lei aveva un peso ancora maggiore (essendo figlia di papa Alessandro VI). Al di là delle verità storiche, l’abile regia di Ivana Ferri ha offerto un tocco di dolcezza e tenerezza che nulla hanno tolto allo spirito cruento delle vicende narrate restituendo una figura umana, quella di Lucrezia Borgia, fatta di sentimenti e di intimi travagli.

L’interpretazione di Patrizia Pozzi è stata intensa, credibile e profonda. Ci ha fatto abitare le stanze dei castelli ferraresi, ci ha fatto vedere, apprezzare e disprezzare uomini e donne che parevano essere lì in carne e ossa, ci ha fatto soffrire amare e gioire con i sentimenti di Lucrezia e vivere le sue emozioni condividendole con noi, ha cioè fatto quello che una vera artista della scena sa fare, ci ha fatto emozionare, ci ha fatto astrarre, ci ha commossi, ci ha coinvolti, ci ha preso per mano e portato nel mondo di una donna così distante da noi da renderla tanto attuale e presente. Cosa si può chiedere di più ad un’attrice?

L’artigiano è un abile esecutore, capace e attento, l’artista è una fonte di emozioni.

Ieri sera Patrizia Pozzi ci ha emozionato.

Perché il teatro è vita.

Oltre la quarta parete

Da poco sono entrato nel circuito di “Invito a cena con delitto”, sono uno degli attori che interpreta un ruolo nelle rappresentazioni che si fanno nei ristoranti dove il pubblico, fra una portata e l’altra, è coinvolto nelle azioni comiche e strampalate che seguono il filo conduttore di una trama poliziesca e alla fine è invitato a proporre la propria soluzione del giallo vincendo, chi scopre la verità, un premio da parte del ristoratore.

Questa esperienza nuova mi ha permesso di riflettere su un aspetto spesso teorizzato e mai realmente affrontato: andare oltre la quarta parete.

La caratteristica di queste esibizioni sta nell’interazione con gli spettatori che sono coinvolti spesso con risvolti divertenti e assolutamente imprevedibili. Qui si apre la diretta conseguenza del varco della quarta parete: l’improvvisazione teatrale.

Lo sanno bene bene i musicisti quanto sia complessa l’improvvisazione che, al contrario di quanto si potrebbe pensare, è una tecnica che ha le sue regole, i suoi percorsi e i suoi limiti. Reagire alle interazioni degli spettatori, a volte alle loro provocazioni, ai loro stati d’animo o al loro naturale desiderio di partecipare, è un’esperienza difficile, complessa ma estremamente stimolante.

Ogni volta che si entra in scena si “butta il cuore oltre l’ostacolo” e la determinazione, la concentrazione e la percezione dei luoghi, degli spazi, dei volti è assoluta. Non è come sul palcoscenico, dove le luci oscurano il pubblico e allora è più semplice concentrarsi su quanto avviene sul palco… no, in un ristorante, fra i tavoli, l’attore vede i volti degli spettatori, di chi deve emozionare, riceve continui e infiniti feed-back che alzano la tensione e accrescono l’entusiasmo in maniera esponenziale. Si incrociano gli sguardi, si sentono le voci, si “tocca” la tensione, si capisce subito se una battuta è stata detta bene o male dalle reazioni del pubblico.

L’ultimo aspetto estremamente stimolante di questo tipo di esperienze sta nell’interazione diretta, a volte fisica, con gli spettatori che manifestano quasi sempre il desiderio e l’intenzione di partecipare, perché divertirsi è anche questo: condividere un’esperienza piacevole, brillante, sentirsi parte di qualcosa di bello e gli spettatori vogliono sentirsi parte della bellezza. Assecondare e stimolare questo naturale sentimento è una delle soddisfazioni maggiori che un attore possa raggiungere…

…perché teatro è vita!

Scopri “Invito a cena con delitto dell’ispettore Tourbillon

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Il fascino della morte

Ho colto un frammento di un’intervista a Mehdi M. Barsaoui, giovane regista tunisino. Fra le cose che ha detto ce n’è una che trovo tanto singolare quanto vera: “siamo affascinati più da ciò che non vediamo che da ciò che vediamo. La morte non la vediamo e per questo ci affascina.

Amici e colleghi spesso mi chiedono perché scrivo testi tragici e noir come la trilogia “El proceso”, “L’ultimo odore”, “Dopo”, “Il compleanno”, “La valigia” (il primo atto in particolare), “Il vuoto”, “L’ultimo giorno” o i testi che sto preparando su cui mi confronto con amici ed esperti in varie discipline (psicologia, spiritualità, filosofia, teatro); in questi lavori il tema della morte è sempre presente, e capisco che questo succede proprio perché ciò che non conosco mi affascina, mi avvicina all’incomprensibile e quindi lo faccio affrontare dai miei personaggi lasciando a loro il compito ingrato di affrontare e spiegare ciò che io non posso comprendere.

La morte non si vede ma si immagina, è parte del proprio credo o delle proprie angosce, sono portato a pensare che alle religioni molte persone affidino la ricerca di queste risposte.

Ogni narrazione è fatta di mistero, le prime battute che cominciano sovente in una “normalità” precaria, destinata a cambiare nel giro di pochi minuti (altrimenti non ci sarebbe nulla da narrare) hanno il compito di creare aspettativa, attenzione verso una storia ignota che verrà raccontata, bene o male non importa, che coinvolgerà gli spettatori rendendoli parte di un concatenarsi di eventi che produrranno emozioni, vera essenza dell’arte.

E quale mistero, quale emozione è più grande, coinvolgente, comune a persone di ogni latitudine, censo, cultura e condizione sociale della morte? A volte parlarne può servire ad esorcizzarne il timore che incute, a volte può evocare le nostre paure più profonde.

Quello che resta alla fine è il mistero di ciò che non si conosce, ed è quello che affascina.

Il bisogno di verità

“Benvenuti a teatrodove tutto è finto ma niente è falso
Questa frase di Gigi Proietti è la vera ragione per cui le persone continuano ad andare a teatro, per cui il teatro non morirà mai.

Ma cosa c’è dietro questo aforisma? E perché dovrebbe giustificare la presenza del pubblico in platea, nelle gallerie e nei loggioni? Perché il teatro è l’unico (o uno dei pochi ancora rimasti) luogo in cui, per usare una frase di Valerio Binasco, il sentimento e la parola si tengono per mano.

L’attore in scena deve essere credibile, ma per esserlo ha bisogno di provare un sentimento che, come diceva Louis Jouvet, precede la battuta.

Certo, la scena è finzione, l’interpretazione è finzione: io se interpreto Amleto non sono Amleto e la scenografia intorno a me (quando c’è) non è la reale ambientazione in cui avvengono i fatti, ed è quindi vero che in teatro tutto è finto, ma appunto finto non falso, perché se fosse così l’attore non sarebbe credibile, non sarebbe vero come appunto contestava Stanislawsky nel suo “Il lavoro dell’attore”, perché il falso in scena non è l’atteggiamento meschino di Jago nell'”Otello”, ma è l’espressione di un sentimento che non si prova.

Quando l’attore non prova un sentimento che manifesta in scena, il pubblico lo avverte, se ne rende conto perché manca quel momento di condivisione emotiva con lo spettatore, che alla fine gli fa dire nella migliore delle ipotesi “…hmmm sì sì, bravo ma non mi ha convinto.”

Sentimento e parola sono indissolubili sul palcoscenico perché in teatro non si rappresentano cose, facce o scenografie ma emozioni, stati d’animo, paure, gioie, amori, odio, sgomento, felicità… e quelle non si fingono, si possono solo sentire e vivere per condividerle col pubblico. Semmai le cose, le scenografie, i corpi, le facce (anche le maschere) sono tutti strumenti al servizio della narrazione che avviene attraverso il sentimento e la sua trasmissione.

Quando sentimento e intenzione si sono lasciati la mano? Secondo Valerio Binasco, “quando si premette il bottone che sganciò la bomba atomica su Hiroshima azzerando la voglia dell’umanità di fare festa”. Probabilmente è così, anche se non sono del tutto d’accordo. Penso che la fine dell’abbraccio fra parola e sentimento sia avvenuto progressivamente, mentre l’immagine prendeva a poco a poco il ruolo della verità e la parola ne diventava la cornice, al punto che oggi la tecnologia riesce a produrre le cosiddette “fake news” con tale verosimiglianza che è davvero difficile capire dove stia la verità.

In “Homo Videns” Giovanni Sartori affermava che l’eccesso di immagini atrofizza la capacità umana di astrarre, di immaginare qualcosa che viene descritto. Per questo mi piace il teatro spoglio, privo di scenografia o con una scenografia ridotta all’estrema essenzialità. Preferisco l’evocazione perché essa diventa uno dei canali su cui si veicola l’emozione che gli attori in scena producono attraverso il sentimento (che appunto precede la battuta). Se posso immaginare le schiere degli eserciti, se posso immaginare i palazzi in cui avviene l’azione, la stessa battuta trasmessa dall’attrice o dall’attore con la sua mimica espressiva, con la sua intensità vera mi toccherà le corde dell’anima.

In teatro non si può essere falsi perché la vita è vera e… il teatro è vita.

Dico Bene?

Per un attore la dizione è fondamentale. Non si può immaginare di calcare le scene, leggere un testo, una poesia senza conoscerla, senza averla studiata.

La dizione è importante nell’interpretazione, nel canto e in ogni azione che porti le persone a parlare in pubblico ma non solo, la dizione è conoscenza della voce, degli elementi che contraddistinguono la parola e non è cosa da poco, perché conoscere gli elementi che caratterizzano la voce, il porgere la parola, in sintesi “prosodia”, significa anche esprimersi con maggiore efficacia nella vita. Per questo la dizione dovrebbe essere insegnata a scuola, magari nelle nozioni base, ma è una materia che contribuisce, e non poco, alla formazione della persona poiché conferisce il controllo dell’espressione del proprio pensiero, di fatto è un importante completamento della conoscenza della propria lingua e, perché no, un avvicinamento consapevole al teatro (altra materia che dovrebbe rientrare nei programmi didattici per il suo valore educativo e culturale).

Ci sono molti corsi in rete, personalmente prediligo quelli in presenza poiché la vicinanza fisica del docente aiuta l’allievo a correggere più efficacemente problemi di postura, di impostazione, se poi questioni di tempo o logistiche non lo consentono si può ricorrere a libri e corsi online ma avendo cura di tanto in tanto di prendere qualche lezione in presenza per correggere quegli aspetti fisici che solo il contatto di persona può aiutare a correggere.

Il libro che ho riportato nella foto che accompagna il post è uno dei primi e più conosciuti sul tema, scritto da Oskar Schindlrer e Iginio Bonazzi (che fu il mio maestro di dizione nel 1983), ma ci sono anche altre pubblicazioni più recenti alcune dotate anche di cd allegato per ascoltare gli esempi. Insomma, non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Se poi si fa teatro a qualsiasi livello, dilettantistico, amatoriale o professionistico, non si può fare a meno di conoscere bene gli elementi espressivi della voce e la corretta gestione della parola. Uno dei primi effetti di un buon corso di dizione, seguito con scrupolo, è la perdita della cadenza dialettale, e se si possiede un buon orecchio si possono acquisire alla bisogna quelle di diversi dialetti, nel mio percorso ho imparato a gestirne alcune (torinese, siciliano, pugliese, romano, toscano, napoletano, sardo, veneto, ligure, lombardo) magari non troppo specifiche di determinate aree per mancanza di conoscenza delle persone, dei luoghi e delle culture ma tali da mettermi nelle condizioni di poter interpretare parti con cadenze necessarie alla caratterizzazione di determinati personaggi.

In conclusione, la dizione è uno strumento importante nella vita di tutti perché consente di conoscere meglio sé stessi attraverso il controllo di quello che si dice come lo si dice. Se poi si va in scena allora è fondamentale.

Perché il teatro è vita.

Quel magico momento…

All’inizio di uno spettacolo teatrale c’è un momento magico che dura un’eternità: quello che precede l’apertura del sipario.

Ci sono teatri che per varie ragioni, da quelle tecniche a quelle economiche, non hanno le tende o il telone ed è un peccato, perché l’emozione di sentire il pubblico oltre quella “parete”, la famosa quarta parete, è intensa, si percepisce la sensazione di attesa, si amplifica la tensione, i muscoli si irrigidiscono e per quanto si mettano in pratica le tecniche di Stanislawsky per scioglierli, per quanto si facciano esercizi di respirazione o si ricorra ad altri rimedi, quell’emozione preliminare è inevitabile, quello stato d’animo è profondo, quell’ansia avvolge e pervade.

In fondo è salutare: se controllata, se gestita, se si impedisce che prenda il controllo sull’attore, quella tensione è come la corda di un arco che viene tirata prima di scoccare il lancio della freccia che sarà tanto più potente quanto maggiore sarà stata la forza applicata.

Fare centro è un’altra storia, dipende da diversi fattori: molti endogeni, alcuni esogeni. Sono endogeni quelli che comprendono l’intesa fra gli attori, la cura della regia, la preparazione sia a lungo termine che quella immediata, la concentrazione, lo stato d’animo. Sono invece esogeni quei fattori che dipendono dal clima in città, dalla programmazione del teatro, dalla preparazione del pubblico, dalla campagna di stampa e quella promozionale, tutte cose su cui l’attore, il cast, il regista non possono intervenire se non marginalmente.

Quando si spengono le luci, suona la campanella, la voce avvisa “chi è di scena“, si raggiunge il culmine di quella tensione e il rumore delle tende o del sipario che si muovono produce una scarica di adrenalina che nessuna emozione può eguagliare e nessuna parola può descrivere compiutamente.

Quel momento magico è unico e irripetibile e nella giornata mondiale del teatro, vale la pena ricordarlo poiché la sua breve durata passa perlopiù inosservata e invece è vitale.

Perché il teatro è vita!

Livelli narrativi

Uno dei miei maestri di regia, Giancarlo Fares, durante una lezione disse che i più grandi autori teatrali scrivono opere con più livelli narrativi, in Shakespeare ad esempio si arrivava anche fino a cinque o sei livelli.

Storie che si sovrappongono, narrazioni che si intrecciano ma che “vivrebbero di vita propria” anche se estrapolate dalla trama principale dell’opera teatrale, i livelli narrativi sono un po’ come il contrappunto nella musica, in cui in sostanza ci sono diverse melodie che si sovrappongono e che stanno bene insieme ma ciascuna delle quali potrebbe essere ascoltata separatamente ed essere completa, non come supporto di un’altra melodia.

È difficile intrecciare le diverse storie, è un esercizio complesso il cui rischio consiste nel creare un testo disordinato, fuorviante, dove lo spettatore non sa più bene cosa seguire se la scrittura non è stata condotta con attenzione, tenendo bene a mente il percorso narrativo primario. Ho cercato di concretizzare questo concetto nell’audioracconto “La rivelazione” insieme a Vita Respina (con cui l’ho interpretato) ove si sovrappongono almeno tre livelli narrativi (l’incontro fra i personaggi, Roma durante il fascismo e una storia d’amore) i cui contorni sono sfumati ma che potrebbero essere storie a sé stanti.

Quando scrivo i miei testi, senza pretese lo so, li “vedo” rappresentati in scena e li immagino da spettatore, non so cosa scriverò qualche riga dopo: so dove sono ma non dove sarò. Questo aiuta e m’immedesimo nei personaggi indagando nelle loro storie.
Per questo nella direzione di uno spettacolo o un audioracconto ho iniziato a lavorare preparando dei profili dei personaggi che illustrano agli attori ogni aspetto della loro esistenza fino alle due generazioni precedenti. Non mi limito solo alla storia personale di ciascun personaggio, ma anche la sua spiritualità, le sue idee politiche, la sua psicologia, le sue aspirazioni, il suo lavoro, le sue fobie e i rapporti con colleghi, amici e parenti.

Agli attori consegno queste pagine in cui ciascuno deve studiare il suo personaggio e conoscere i profili degli altri, prima ancora di studiare il testo, prima ancora della lettura analitica collettiva. In questo modo diventa più facile per gli attori farsi “attraversare” dai personaggi che devono interpretare. Sarà poi la loro creatività a conferire i tratti di credibilità, del “vero”, nell’affrontare le circostanze date trasmettendo le giuste emozioni al pubblico.

Succede però che nel costruire questi profili così approfonditi nascano intrecci che possono dare vita ad altre storie, a narrazioni parallele. Ne “Il perdono“, il terzo audioracconto della trilogia “El proceso” all’attrice Patrizia Battaglia, che aveva una ventina di battute nel testo (che dura poco più di dieci minuti), consegnai ben tre pagine di testo fitto con i profili del suo personaggio, della figlia, del fratello, del marito, dei genitori e dei nonni, aveva più cose da sapere su ciò che c’era fuori dalla scena che su quello che doveva interpretare. Da brava attrice non ebbe difficoltà a calare dentro di sé il personaggio di Florencia Martinez e “diventare” lei mantenendo la propria personalità conferendole dramma e credibilità. Questo avvenne perché nella sua interpretazione si avvertivano i diversi livelli narrativi che erano all’origine delle circostanze date in cui stava recitando.

Sebbene sia un percorso su cui ho ancora molto da imparare, vedo che è efficace per aiutare gli attori a dare il meglio di sé in scena e abbreviare i tempi di comprensione del personaggio. Sta succedendo anche con “Una volta ti vengo a trovare” (il dramma che portiamo in scena con Angelo Cauda, Marzia Trasanna e Marco Mauro appena la pandemia lo permetterà) rendendo tutto più armonico, tutto più “vero”, perché la vita, quella fuori dalle scene (vera non è l’aggettivo giusto perché è vera anche la vita sul palcoscenico) è un intreccio continuo e una sovrapposizione costante di più livelli narrativi.

Siamo il frutto di tante storie: la nostra esistenza, come potrebbe non esserlo anche il teatro che per Silvio D’Amico è la poesia della vita?

Ascoltare: che piacere!

Fin da bambino ero affascinato dai radiodrammi: mi piaceva immaginare ciò che ascoltavo e quelle storie talvolta diventavano parte dei miei giochi.

Sarà perché la televisione è arrivata diversi anni più tardi a casa nostra e quindi dovevo fare di necessità virtù, sarà perché alimentava la mia fantasia ma quella “palestra di ascolto” mi ha sviluppato l’interesse per la radio.

Quando nacquero le radio private mi avvicinai subito a quel mondo con interesse e voglia di fare e qualcosa nei primi anni ottanta combinai. Mi cimentai pure con la televisione senza però trovarvi quel brivido che la radio mi provocava. I corsi di dizione e recitazione con maestri del livello di Iginio Bonazzi ed Ernesto Cortese diedero forma e sostanza a questa passione. Due anni fa aprii il mio canale podcast almicrofono.it, che in questi giorni ha raggiunto i trentamila ascolti, vi si trovano interpretazioni mie e di amici attori di testi classici e testi nostri.

Ogni volta che propongo il canale ad amici e conoscenti incontro molto interesse e i ritorni in termini di apprezzamenti, critiche e consensi confermano che si tratta di una buona cosa.

Ma perché piacciono i radiodrammi (poiché in fondo la fruizione di un podcast è assimilabile a quelle di una radio senza però vincoli di orario)?

Da un lato perché è meno faticoso che leggere un libro: leggere comporta una concentrazione maggiore, si è costretti (piacevolmente direi) ad usare la vista senza potersi dedicare ad altro, dall’altro per la ragione che ho citato all’inizio e che muoveva il mio interesse da bambino: lo stimolo della fantasia.

Quando si ascolta una lettura interpretativa, se ben fatta ovviamente, siamo indotti ad astrarre (su questo concetto esiste un bellissimo libro di Giovanni Sartori: “Homo videns”), possiamo immaginare volti ed emozioni tanto attraverso la trama che la prosodia adottata da chi sta leggendo. A differenza del libro possiamo guardare un quadro, chiudere gli occhi, rilassarci o agitarci, muoverci al ritmo delle emozioni, per questo la lettura interpretativa stimola la fantasia dell’ascoltatore.

Molte persone che hanno assistito alle diverse edizioni de “L’ultimo giorno” hanno ammesso che ascoltare la nostra lettura gli faceva “vedere” ciò che succedeva, restavano incollati fino alla fine perché lo spettacolo lo avevano nella mente e lo traducevano in immagini che appartenevano solo a loro.

Per queste ragioni la lettura interpretativa, la narrazione (si pensi ad Ascanio Celestini o Marco Paolini) sono sempre accolte con piacere e con partecipazione dal pubblico, perché stimolano la nostra fantasia e ci rendono a nostro modo parte della creazione della storia che stiamo ascoltando.

In definitiva si tratta di un altro modo di mettere in pratica quanto diceva Umberto Eco: chi legge vive non solo la sua vita ma quelle di tutti i personaggi che ha incontrato nelle sue letture, o nei suoi ascolti aggiungo io.

Un altro processo che conferma, una volta di più, che il teatro è vita.